Salvare i libri

Oggi, nell’anniversario delle Bücherverbrennungen, i roghi di libri avvenuti la notte del 10 maggio 1933 a Berlino e nelle principali città della Germania, l’Associazione italiana Biblioteche ha promosso la manifestazione “Libri salvati”.

Partecipo con tutto il cuore a questa manifestazione perché il ricordo di quell’orrore della storia europea è diventato col tempo un pezzo della mia storia personale. Come credo sia un pezzo della storia personale di chiunque lavori con le parole.

Ecco dunque alcuni dei miei versi che rappresentano, mettono in scena – potrei dire –, il mio rapporto con i roghi dei libri.

Nel maggio di qualche anno fa, sconvolto da un grande dolore familiare, ho scritto la poesia che trascrivo in parte qui sotto e che è spiegata dall’esergo con la citazione di Calvino.

Michele Tortorici, Non sono bravo a fare lo sputafuoco, (da Il cuore in tasca, Manni, 2018)


La parola collega la traccia visibile alla cosa invisibile,
alla cosa assente, alla cosa desiderata o temuta,
come un fragile ponte di fortuna gettato sul vuoto.
Italo Calvino, Lezioni americane, 3 – Esattezza

Ho ricominciato: ho scritto, dunque, anche se ci sono volte – parlo
con cognizione di causa: ricordo, ecco, un giorno (il sette)
del mese di maggio del duemila e tredici –,
ci sono volte che le parole non vorreste proprio che uscissero
dalla vostra testa. A me è capitato
mica tante volte: poche. Però ricordo, ecco, quel giorno e i giorni
che l’hanno seguito: io volevo essere
allora uno sputafuoco, uno di quelli che davanti
ai tendoni del circo attirano il pubblico. Volevo sputare
una bella fiammata e ridurre le parole
che sarebbero dovute uscire
dalla mia testa, voom, in cenere. Perché da lì, dalla bocca
escono le parole che si trovano nella testa quando vogliamo che altri
le conoscano: in latino si diceva edere, ex dare, dar fuori
dalla bocca, appunto.
[…] Una fiammata, una bella
fiammata e tutte le parole che cercano
di uscire dalla testa attraverso la bocca ridotte,
voom, in cenere. Questo
desideravo quando, come vi ho detto, mi è capitato di volere essere
uno sputafuoco.

Non è giusto,
mi sono detto tuttavia e continuo a dirmi e dico a voi,
non è giusto
mai avercela
con le parole. Che colpa ne hanno? Bisogna saperlo, e difatti
l’ho sempre saputo, che le parole sono fragili ponti
di fortuna – ma che dico fragili, fragilissimi: perciò
da me prediletti – dove
passa la vita ed è necessario che passi anche la morte.

Non è giusto,
mi sono detto tuttavia e continuo a dirmi e dico a voi,
non è giusto
mai avercela
con le parole. E allora? Niente sputafuoco: mi è capitato
di volerlo essere, va bene, ma poi, basta! Niente fiamme, niente
cenere. Ho ricominciato, allora. Continuo
a costruire, come avevo fatto prima
di quel giorno di maggio, come avevo fatto sempre, nuovi fragili ponti
di fortuna. Continuo
a percorrere il mondo lungo queste vie sospese
sul vuoto: vie che però conosco bene; vie,
l’ho sempre saputo, dove
passa la vita ed è necessario
che passi anche la morte. Ho ricominciato. Che altro
avrei potuto fare? Non sono bravo
– sapete? –, non sono bravo per niente a fare lo sputafuoco.


Subito dopo, poiché mi sono reso conto dell’equivoco che quei miei versi potevano far sorgere, ho scritto quest’altra poesia

Michele Tortorici, Devo chiarire, (da Il cuore in tasca, Manni, 2018)


Devo chiarire,
a proposito del fatto che, come sputafuoco, avrei voluto
incenerire parole,
devo chiarire
che mi riferivo alle parole che stavano ancora dentro
alla mia testa, alle parole che se ne stavano
belle tranquille, ancora tutte rannicchiate lì: parole private, insomma,
di mia stretta – intima, direi – proprietà; niente di pubblico.

Devo chiarire
che non mi piace proprio, in generale, bruciare le parole. Perché,
a voi piace? C’è sempre il rischio
– a questo ho pensato solo dopo avere scritto
la poesia sullo sputafuoco –
c’è sempre il rischio che qualcuno vi prenda sul serio
che non capisca, che non disgiunga
il senso metaforico di quel bruciare
da quello letterale o, peggio, che non voglia vedere
la differenza tra il privato e il pubblico. C’è sempre il rischio
che qualcuno dica: «Ecco,
quello lì voleva fare un bel fuoco
con le parole che non gli erano ancora uscite
dalla testa e io voglio farlo
con le parole che sono uscite dalla testa di uno
che a me non piace. Perché
lui sì e io no?». Ce ne sono, statemi a sentire, di quelli
che non perderebbero un minuto se qualcuno
gli desse il la. Ce ne sono, statemi a sentire, di quelli
che non aspettano altro per fare, voom, un falò
– uno di quelli veri, e senza neppure
la virtù circense di uno sputafuoco –
delle parole di qualcuno
che non gli piace. Parole pubbliche, edite:
ricordate? edere, ex dare, dare fuori. Libri, ecco.

Devo chiarire
che non dimentico, che non riesco
– sapete? – a dimenticare i versi di Heine:
«Dort, wo man Bücher /
Verbrennt, verbrennt man auch am Ende Menschen».
Primo atto dell’Almansor.
«Là dove i libri /
si bruciano, si bruciano alla fine pure le persone».

Devo chiarire
che certe parole non le dimentico. Altro che bruciarle.


I versi di Heine che ho appena citati sono ora incisi in una iscrizione che sulla Opernplatz (oggi, ufficialmente, Bebelplatz, ma i berlinesi continuano a chiamarla come prima) precede e segue il Denkmal zur Erinnerung an die Bücherverbrennung realizzato nel 1995 da Micha Ullman: semplicemente una voragine le cui pareti sono ricoperte da scaffali vuoti.

Ecco, qui di seguito, i nomi degli autori i cui libri furono bruciati quel giorno:
Albert Einstein, Alexander Lernet-Holenia, Alfred Döblin, Alfred Kerr, Alfred Polgar, André Gide, Anna Seghers, Arnold Zweig, Arthur Schnitzler, Bertha von Suttner, Bertolt Brecht, Carl Sternheim, Carl von Ossietzky, Charles Darwin, Egon Erwin Kisch, Émile Zola, Erich Kästner, Erich Maria Remarque, Ernest Hemingway, Ernst Bloch, Ernst Erich Noth, Ernst Glaser, Ernst Toller, Erwin Piscator, Eugen Relgis, Felix Salten, Franz Kafka, Franz Werfel, Friedrich Engels, Friedrich Wilhelm Foerster, Georg Kaiser, Georg Lukács, George Grosz, Grete Weiskopf, H. G. Wells, Heinrich Eduard Jacob, Heinrich Heine, Heinrich Mann, Helen Keller, Henri Barbusse, Hermann Hesse, Ilja Ehrenburg, Isaak Babel, Iwan Goll, Jack London, Jakob Wassermann, James Joyce, Jaroslav Ha?ek, Joachim Ringelnatz, John Dos Passos, Joseph Roth, Karl Kraus, Karl Liebknecht, Karl Marx, Klaus Mann, Kurt Tucholsky, Lev Trockij, Leonhard Frank, Lion Feuchtwanger, Ludwig Marcuse, Ludwig Renn, Ludwig von Mises, Maksim Gor’kij, Marcel Proust, Marieluise Fleißer, Max Brod, Nelly Sachs, Ödön von Horváth, Otto Dix, Robert Musil, Romain Rolland, Rosa Luxemburg, Sigmund Freud, Stefan Zweig, Theodor Lessing, Thomas Mann, Upton Sinclair, Vladimir Lenin, Vladimir Majakovskij, Walter Benjamin, Werner Hegemann.

Vorrei concludere questo mio post con la citazione di poche parole di Thomas Mann (uno degli autori i cui libri furono, appunto, bruciati nella notte del 10 maggio del 1933) che mi sembrano attualissime. Già, perché il vero problema, quando qualcuno brucia dei libri, non è tanto il fatto che  li abbia bruciati, di per sé terrificante: il vero problema è ma il criterio con il quale vengono scelti i libri da bruciare; un criterio la cui definizione è, se possibile, ancora più terrificante.

In una discussione tra due dei personaggi simbolo de La montagna magica, Ludovico Settembrini e Leo Naphta, il secondo a un certo punto afferma: «[…] l’autorità è l’uomo, il suo interesse, la sua dignità, la sua salvezza, e tra questa autorità e la veritànon può esserci conflitto. Esse coincidono». Ed ecco la risposta:

«Sie lehren da einen Pragmatismus – erwiderte Settembrini – den Sie nur ins Politische zu übertragen brauchen, um seiner ganzen Verderblichkeit ansichtig zu werden. Gut, wahr und gerecht ist, was dem Staate frommt. Sein Heil, seine Würde, seine Macht ist das Kriterium des Sittlichen. Schön! Damit ist iedem Verbrechen Tür und Tor geöffnet un die menschliche Wahrheit, die individuelle Gerechtigkeit, die Demokratie – sie mögen sehen, wo sie bleiben …»

«Lei sta predicando un pragmatismo» rispose Settembrini «che basta trasporre sul piano politico per coglierne appieno la natura nefasta. È buono, vero e giusto soltanto ciò che giova allo Stato. La sua salvezza, la sua dignità, la sua potenza sono i criteri della morale. Ebbene! Con ciò si spalanca la porta a ogni crimine, e la verità umana, la giustizia individuale, la democrazia …, può ben vedere dove vanno a finire …»