Perché ciò che è accaduto allora non accada mai più
Ci sono tanti che irridono all’Unione Europea o, senza troppo pensarci su, ritengono di poter fare a meno delle sue istituzioni.
Eppure questa Europa, con tutti i difetti delle sue politiche economiche di austerity, con tutte le insufficienze di una politica estera ancora “non comune”, con tutti i limiti di mediazioni interne spesso al ribasso, insomma con tutti gli errori di una comunità storicamente ancora giovane e che certe volte appare intimidita dalla stessa bellezza del suo essere comunità: questa Europa ha consentito a tutti noi che ne facciamo parte di vivere da settanta anni in pace. Non è così scontato, come ci insegnano le guerre sanguinose che si sono svolte nei territori della ex Jugoslavia della prima metà degli anni Novanta del secolo scorso e la guerra al confine orientale dell’Ucraina che è, purtroppo, storia di questi giorni.
Settanta anni fa le città d’Europa apparivano in molti casi come nella foto qui sopra: un ammasso di rovine causato da cittadini europei contro altri cittadini europei. Il bombardamento di Dresda del 13-15 febbraio del 1945 è uno dei simboli dell’odio di quegli anni: un simbolo tanto più importante perché Dresda era, allora, una città della Germania nazista contro la quale era giusto combattere per difendere la libertà di tutti. Proprio per questo, oggi, tutti, tutti noi che godiamo della libertà e della pace conquistate a quel terribile prezzo, dobbiamo farci carico della responsabilità di quell’odio: perché ciò che è accaduto allora non accada mai più. È questo il sentimento che ho provato quando qualche anno fa sono stato a Dresda e, dopo aver visitato la Frauenkirche da poco restaurata, mi sono seduto commosso davanti al masso nero che ricorda ciò che è stato.
Trascrivo qui sotto i versi che ho scritto in quella occasione e che ora fanno parte della mia più recente raccolta di poesie, Viaggio all’osteria della terra (Manni, 2012).
Michele Tortorici, Domenica a Dresda
Abbiamo sbagliato
a venire di domenica in questa città dove la piazza
dell’Altmarkt è maltrattata oggi dal vuoto che vi abita
come se fosse a casa sua.
Abbiamo sbagliato
a venire di domenica, a venire un giorno
che passano solo turisti e li maledirei, se non ci fossimo
pure noi, tra i turisti,
a fare numero. E negozi chiusi per giunta,
tranne, vedo, una cartoleria
antica, di quelle che cerco
sempre perché mi piacciono penne
e carte, astucci di legno e matite, ma questa
è un po’ snob: più che altro
una rivendita di souvenir di lusso. È per questo
che è aperta. Poco più in là sterri e scavatrici, che sono
da noi scenario
di periferie pasoliniane sopravvissute
al medesimo Pasolini, qui sono – suppongo – impronte
di ricostruzione disseminate
nel centro storico ma, oggi, senza neppure una macchina
in movimento, senza neppure un custode, hanno preso
il senso di una concretizzazione – per la loro stessa forma concava,
e anche
per lo sparpagliamento, dato che sono un po’ dappertutto – del vuoto
che è andato ad abitare nella piazza principale (sarà
la piazza principale, poi, quella dell’Altmarkt? O è
una mia impressione, un errore della guida?).
Abbiamo sbagliato,
comunque, a venire di domenica. Come facciamo a conoscere
il domani di questa piazza? Magari si riempirà. E si svuoterà
– sempre di domani
parlo –, dall’altra parte, la scalinata
della Frauenkirche dove oggi c’è la fila perché tutti,
me compreso, vogliono vedere
il miracolo del restauro. Ma, questi tutti, non hanno nessun interesse
per il vecchio muro annerito lasciato là fuori
a testimonianza, con targa esplicativa – per chi vuole leggerla.
Tra questi tutti
che il vecchio muro non lo guardano neanche, però,
io non sono compreso. Tutti meno uno. Mi sono seduto, invece,
su una panca di pietra all’esterno
della chiesa e me lo sono ficcato bene in testa il muro, insomma
l’ho accettato, senza cialtronerie, quel peso. Me lo sono caricato
addosso perché non sono di quelli
che dicono: «io non c’ero». E va bene. Intanto,
poiché ci sono degli orari per la visita e adesso
non si può più entrare
nella chiesa, anche di quest’altra piazza, quella del Neumarkt, il vuoto
ha preso possesso.
Abbiamo sbagliato
a venire di domenica. Passerà di qui, negli altri giorni,
chi lavora in questa città, chi ci vive, quelli che l’hanno avuta
negli occhi da prima. Sono convinto che il peso
l’avremmo condiviso, nonostante il mio incerto tedesco. Quanti sono
i più vecchi? Mi sbaglierò, ma non posso
immaginare che in un giorno come tanti, in un giorno
qualsiasi di lavoro, pieno del passare
di chi vive in questa città, sarei qui ugualmente
solo a tenermi
addosso questo peso.
Abbiamo sbagliato
a venire di domenica. E abbiamo sbagliato,
soprattutto, a venire da turisti. In questa città dovevamo
venire da pellegrini.