«Se lascio tracce […]» comincia con queste parole una poesia, Non ho fatto niente, che ho scritto qualche anno fa e che ho pubblicato nella mia più recente raccolta, Il cuore in tasca. Voglio precisarlo perché il seguito di questo mio intervento non sembri una forzatura dovuta a qualche mio trascorso peccato.
Questo mio intervento, con il solito ritardo rispetto alla strombazzatura mediatica, non vuole essere una difesa del banale errore di ortografia (“traccie”, anziché “tracce”) occorso qualche giorno fa a un dipendente della società informatica che gestisce il sito del Ministero dell’Istruzione. Si propone, invece, di deplorare l’intemperanza con la quale quell’errore è stato segnalato dal “popolo del web”: un popolo che, in questo caso, è stato tanto più intemperante del solito quanto più si è sentito soddisfatto di avere segnalato un errore occorso proprio a quel Ministero che avrebbe il compito (secondo una vulgata erronea, ma diffusa) di correggere gli errori degli altri, soprattutto in tempi d’esame, come questi. “Guarda un po’ dove risiede la vera ignoranza ortografica del nostro Paese: risiede proprio in quella Amministrazione della scuola dalla quale dovrebbe scaturire la sapienza!”. Questa, naturalmente con espressioni molto meno eleganti, la sostanza delle accuse al Miur. E il Miur, sentendosi colpito e ritenendosi affondato, si è prontamente scusato con il seguente comunicato ufficiale: «Abbiamo visto il refuso sul sito degli Esami di Stato e siamo subito intervenuti per farlo correggere. Si tratta di un errore di battitura, di un errore materiale che, naturalmente, non doveva esserci, tanto più su una pagina che riguarda gli Esami».
Il fatto è che la soddisfazione del “popolo del web” nell’avere colto in fallo il Miur deriva essa stessa, probabilmente, da un modesto livello di conoscenza della lingua italiana e non da un rigoroso e consapevole ossequio alle sue regole ortografiche e grammaticali. Già, una maggiore consapevolezza avrebbe infatti indotto molti dei soddisfatti censori a porsi qualche domanda in più sulla regola che essi, in spregio al sito istituzionale che l’aveva violata, hanno ritenuto eterna, assoluta e inderogabile.
Intanto bisogna dire che la regola per la quale “traccie” è una forma errata è stata “inventata” non molto tempo fa per porre rimedio a un problema mai risolto dell’alfabeto italiano, quello della doppia pronuncia delle consonanti “c” e “g”.
Queste consonanti possono avere in italiano una pronuncia palatale, cioè effettuata con la lingua appoggiata sulla parte anteriore del palato (e quindi con un esito dolce, come in “cesto” e in “cirro”), oppure possono avere una pronuncia velare, cioè effettuata con la lingua ritratta verso la parte posteriore del palato, o “velo” (e, quindi, inevitabilmente con un esito duro come in “cane” e in “gatto”, “cosa” e “gola”, “cumulo” e “gusto”). Fino a qui è tutto semplice. Davanti alle vocali -e ed -i le consonanti “c” e “g” assumono suono palatale. Davanti alle vocali -a, -o ed -u assumono suono velare.
Tuttavia, ecco il problema, in italiano esistono parole nelle quali la pronuncia di “c” e “g” è velare anche davanti alle vocali -e ed -i: a questo si rimedia con la -h, come in “chela” o in “chilo”. Ed esistono parole nelle quali la pronuncia di “c” e “g” è palatale anche davanti ad – a, -o ed -u: in queste parole, per far capire a chi legge che il suono di quelle due consonanti è palatale e non velare, si inserisce una -i, come in “ciancia”, in “cioccolato” o in “ciurma”. Negli esempi che ho fatto la -h e la -i hanno una pura funzione diacritica, servono cioè perché chi legge un testo scritto possa distinguere il suono velare della “c” e della “g” da quello palatale delle stesse consonanti. Inutile dire che tutto sarebbe più chiaro se avessimo segni alfabetici diversi per indicare suoni diversi: per esempio, se avessimo “k” per indicare la consonante velare sorda e “c” per indicare la corrispondente palatale.
Poiché la storia della nostra lingua ha voluto altrimenti, ci sono in italiano molte parole che, al singolare, terminano in -cia e -gia. Non parlo delle parole nelle quali la -i non è un segno diacritico, ma una vocale con una sua precisa funzione fonica: per esempio quelle nelle quali la -i è accentata e dunque, se c’è al singolare, ha tutto il diritto di restare al plurale, come in “farmacia” o in “allergia”. Parlo, naturalmente, delle parole nelle quali la -i ha, come ho chiarito prima, una pura funzione diacritica, come in “pancia” e in “ciliegia”, e serve soltanto a farci capire che la “c” in quel caso non è velare come in “panca” e in “sega”. Dunque, al plurale, quella -i non serve più a niente. Si tratta, infatti, di parole femminili che al plurale terminano in -e: e davanti a -e il suono di “c” e “g” è di per sé, comunque, palatale.
Poiché la storia della nostra lingua ha voluto altrimenti e non abbiamo segni alfabetici diversi per suoni diversi, sarebbe bastato abolire la -i che non serve più a niente nei plurali di tutti questi nomi femminili: sarebbe stato facile avere una regola secondo la quale i plurali di “pancia” e di “ciliegia” fossero “pance” e “ciliege”. Sarebbe stato altrettanto facile avere, all’opposto, una regola secondo la quale, per mantenere – diciamo così – una sorta di continuità visiva tra singolare e plurale, la -i del singolare fosse rimasta, per quanto inutile, anche al plurale e avremmo avuto “pancie” e “ciliegie”. Sarebbe stato facile, facilissimo, ma non è stato così. Come è stato?
È stato che per molto tempo nessuno si è interessato alla questione, se non pochissimi e, per fortuna, inascoltati linguisti. Ognuno (ogni persona colta, ogni intellettuale, ogni autore di opere letterarie) scriveva come gli pareva. Un lungo periodo durante il quale la libertà aleggiava sull’uso della -i diacritica nel plurale dei nomi femminili in -cia e -gia. In questo spirito di libertà, mi sembra che prevalessero, comunque, coloro che mantenevano la -i in nome di quella che ho chiamato “continuità visiva” tra singolare e plurale rispetto a quelli che la toglievano in nome della sua inutilità come segno diacritico. Ma la mia è una impressione di lettore di testi antichi e non ha basi statistiche. Proprio per quanto riguarda il plurale di “traccia”, abbiamo due esempi che definirei probanti.
Nel 1881 il coltissimo sacerdote Giuseppe Iacopo Ferrazzi, titolare per quasi tutta la sua vita della cattedra di “umanità[1], geografia e storia” nel regio ginnasio di Bassano (il glorioso Liceo “Brocchi”, fondato nel 1819 e ancor oggi punto di riferimento culturale della città), in una delle sue opere di erudizione, la Bibliografia ariostesca stampata nella stessa Bassano dalla Tipografia Sante Pozzato, scriveva: «Su ‘l finire del 1505[2], o su ‘l cominciare del 1506, Ludovico applicò l’animo a comporre il suo Orlando, sulle traccie di quello lasciato imperfetto dal Boiardo» (p. 61). Nessun dubbio, il professore di ginnasio voleva deliberatamente scrivere «traccie», senza rimorsi e senza scandalo.
Voleva scrivere «traccie» anche se nel Dizionario Tommaseo-Bellini, che usciva proprio in quegli anni, alla voce “traccia”[3], in tutti gli esempi al plurale troviamo sempre la forma “tracce”. Ma la troviamo senza il richiamo a nessuna regola, tanto è vero che nel caso molto simile della voce “caccia” negli esempi al plurale troviamo invece la forma “caccie”.
Quasi trent’anni dopo il Ferrazzi e dopo il Tommaseo-Bellini, Giuseppe Prezzolini, uno degli intellettuali più colti che ha attraversato la storia del XX secolo, nell’opera che segnò il suo momentaneo avvicinamento al crocianesimo, Benedetto Croce, con bibliografia, ritratto e autografo, edita nel 1909 niente meno che dall’editore Riccardo Ricciardi di Napoli, scrisse a sua volta: «Corretta, o meglio, rafforzata così la teoria della pura intuizione, non manca che di vederne traccie più profonde nella critica letteraria del Croce» (p. 64). Anch’egli senza rimorsi e senza scandalo.
E che dire, infine – lasciando ora da parte il plurale di “traccia” – dei filologi contemporanei che, nello stabilire il testo della Commedia dantesca con i criteri dettati dalla odierna ortografia, trascrivono ancora così i versi 106-108 del settimo canto dell’Inferno?
In la palude va c’ ha nome Stige
questo tristo ruscel, quand’è disceso
al piè de le maligne piagge grige.
Già, che dire del fatto che i più autorevoli tra gli antichi manoscritti della Commedia oscillano, per l’ultimo verso di questa terzina, senza rimorsi e senza scandalo, tra «piaggie» e «piagge», «grigie» e «grige» e che i filologi contemporanei hanno scelto sì “piagge” rispetto a “piaggie”, ma hanno lasciato “grige” invece di correggere in “grigie”? Si può ipotizzare che la forma “grige” sia stata suggerita ai filologi che hanno curato le recenti edizioni della Commedia dalla rima con “Stige” (però la rima, che è un fenomeno fonico e non grafico, ci sarebbe stata lo stesso). Ma, soprattutto, si può apprezzare il fatto che “il popolo del web”, nel XIV secolo come nel XIX e agli inizi del XX non fosse ancora pronto a esercitare le sue sfrenate censure e che lo stesso “popolo del web” non abbia una spiccata predilezione per una lettura filologicamente attenta della Commedia dantesca.
Ma veniamo a noi. La regola che riguarda i plurali dei nomi femminili in -cia e -gia è stata suggerita esattamente quarant’anni dopo lo scritto di Prezzolini che ho citato qui sopra. A farlo è stato il grande linguista Bruno Migliorini. Come ricorda l’Accademia della Crusca nella pagina dedicata (con molta misura) a questo problema, il Migliorini, in un articolo del 1949 sulla rivista “Lingua nostra”, pensò a semplificare un altro criterio proposto – e generalmente accettato – in precedenza per la soluzione del problema, quello cosiddetto etimologico: in base a questo precedente criterio, per decidere se mantenere o no la -i diacritica al plurale bisognava rifarsi alla origine etimologica della parola: sicché chi scriveva, per non sbagliare, doveva necessariamente conoscere il latino oppure doveva imparare a memoria i plurali di quelle parole uno per uno. La regola proposta dal Migliorini era – ed è – molto semplice, anche se, bisogna aggiungere, puramente pratica, senza nessuna ragione storica o etimologica e, forse, formulata e suggerita senza prevedere che diventasse eterna, assoluta e inderogabile. Eccola: il plurale dei nomi femminili in -cia o -gia si scrive -cie o -gie, se la consonante “c” o “g” è preceduta da vocale, si scrive -ce o -ge, se “c” o “g” è preceduta da consonante.
Da quasi settant’anni, si tende a seguire questa indicazione, proprio perché è semplicissima da applicare. “Si tende a seguire”, ho scritto, e a ragion veduta.
In primo luogo perché non tutti la seguono. L’Accademia della Crusca è stata interpellata sullo spinoso problema di questi plurali nel 2008 a proposito dell’uscita del bellissimo libro di Oriana Fallaci Un cappello pieno di ciliege. Come mai “ciliege” e non “ciliegie”? L’Accademia non ha espresso nessuna censura per la scrittrice: piuttosto ha cercato di spiegare che il cappello in questione era quello di una antenata dell’autrice vissuta nella seconda metà del XVIII secolo, quando la regola era che si dovesse scrivere “ciliege”[4]. Spiegazione convincente a metà, dato che il libro è scritto, anche per il periodo di quella antenata, in perfetto italiano contemporaneo e senza nessuna indulgenza per le citazioni.
In secondo luogo non bisogna mai dimenticare che anche i più severi assertori delle regole vivono nella storia. Oggi affermano una regola che ieri non era valida. Oggi correggono un errore che ieri non era errore. E domani?
Se è dunque vero che – con le regole suggerite dal Migliorini quasi settant’anni fa e oggi prevalentemente seguite – il plurale corretto di traccia è indubitabilmente “tracce”, chi si lascia sfuggire “traccie”, se si tiene conto della storia linguistica del nostro Paese, non commette un errore particolarmente grave. E chi si scatena a correggere quell’errore con l’aria del censore che opera in nome di una verità assoluta farebbe meglio a studiare quella storia linguistica che, come tutte le storie, è racconto di ciò che diviene e che, nel suo divenire, propone più multiformità che uniformità, più dubbi che certezze.
Se fossi il capo ufficio di quel dipendente che ha scritto “traccie” sulla pagina degli Esami di Stato del sito del Miur, gli darei una pacca sulla spalla e gli farei leggere questo mio post: in ogni caso, niente licenziamenti, per carità!
[1] La materia “umanità” comprendeva l’italiano, il latino e il greco.
[2] Il 1805 del testo originale è un evidente refuso.
[3] Gli ultimi due volumi, e quindi la voce ‘traccia’;, morto il Tommaseo nel 1874 e il Bellini nel 1976, vennero in realtà compilati da Giuseppe Meini per l’edizione completa del 1879.
[4] La quarta edizione del Vocabolario degli Accademici della Crusca (1729-1738), che si atteneva al criterio etimologico, riportava come forma plurale corretta “ciliege”. Tuttavia ricordo che eravamo ancora nel periodo durante il quale, indipendentemente dalle regole dettate dai linguisti, gli scriventi colti si sentivano liberi di usare la forma che preferivano.