Sostengo da tempo – da ultimo in un intervento al convegno Riflessioni ed esperienze per innovare la didattica, che si è svolto a Formia il 6 marzo 2012 – che il testo poetico è, di per sé, un oggetto multimediale. So bene che abbiamo dimenticato questo suo carattere. E non da oggi: tutto è accaduto difatti due secoli fa o poco più; è accaduto quando, alla fine del XVIII secolo, il genere romanzo ha conquistato i lettori d’Europa portandoli, anche per i nuovi accorgimenti tipografici adottati, a una lettura individuale, appartata, a bassa voce o addirittura senza voce. Fino ad allora “leggere” aveva avuto il significato di ‘leggere ad alta voce’, o meglio indicava un evento comunitario (che poteva svolgersi in famiglia, in un salotto frequentato da amici, da conoscenti o anche da sconosciuti, in un luogo pubblico) durante il quale uno dei presenti leggeva ad alta voce e gli altri ascoltavano quella voce.
Più della prosa, la poesia mostrava allora tutta la sua multimedialità. È vero che anche nella lettura della prosa il medium visuale della scrittura alfabetica si univa a quello fonico della voce. Ma era nella lettura del testo poetico che il suono diventava determinante nello stimolare la coscienza del fruitore. Ciò, bisogna aggiungere, si era sempre verificato nella storia della poesia – e continua a verificarsi quando la poesia, anziché essere letta con gli occhi, viene letta con la voce – attraverso il ritmo: un ritmo fissato dalla misura del verso e da tutto ciò che da questa misura deriva, come le varie forme metriche, chiuse o libere, o come la rima, se e quando c’è, o infine come l’enjambement. In questo quadro, il ritmo si rivela capace di confliggere con il senso e di porre continuamente il fruitore – precisamente alla fine di ogni verso, anzi a causa di quella fine – di fronte a scelte decisive per la comprensione. Insomma, il ritmo, quello della poesia, quello che la prosa non ha, entra in modo risolutivo nella definizione del testo. Ecco dunque perché il testo poetico è, di per sé, un oggetto multimediale. Lo è anche quando noi lo mutiliamo e gli togliamo il suono.
Solo nella seconda metà del Novecento, e con molta difficoltà, si è tornati, dopo un secolo e mezzo di silenzio, ad avvertire nuovamente l’esigenza di far sentire il suono della poesia. Le letture pubbliche della generazione beat dei poeti americani o, in Italia, negli stessi anni Cinquanta e Sessanta, le letture televisive soprattutto di Ungaretti, hanno riportato in primo piano la voce dei poeti e a queste si sono aggiunte subito dopo alcune grandi voci di attori che, magari con qualche difficoltà ad adattarsi al ritmo segnato dai versi, hanno comunque contribuito a dare al suono il posto che gli spetta nella definizione del testo poetico.
Nella prima metà del Novecento, invece, era prevalsa la volontà di trovare altri canali mediali, diversi dal suono, per il testo poetico: si trattava di una ricerca centrata più che altro sul tentativo di attribuire al segno alfabetico anche un valore iconico. Da questo punto di vista alcuni risultati straordinari, più che dalla rivoluzione tipografica del futurismo, sono stati raggiunti dai Calligrammes (1913-1916) di Apollinaire, comunque collocati in quella stessa epoca a in quella stessa temperie spirituale. Tra questi, un testo di eccezionale intensità è certamente Il pleut (1916) che riproduco qui sotto.
Ma il testo sul quale voglio soffermarmi è quello che leggete qui sopra (e fatelo a voce alta, molto alta, mi raccomando): Paesaggio + temporale, di Giacomo Balla (1871-1958).
Balla ha rappresentato, in particolare nel secondo decennio del Novecento, la figura di un ricercatore a tutto campo, inesauribile sia nell’approfondire sia nell’estendere il terreno della sua ricerca artistica. E, proprio di questa sua tendenza a cercare nuovi spazi e ad abolire vecchi confini è testimonianza il testo che vi propongo.
In Paesaggio + temporale il segno alfabetico, più e oltre che diventare esso stesso segno iconico, viene tracciato come parte di una linea di disegno e costituisce, con forza decisamente maggiore anche rispetto ai più complessi e a volte leziosi Calligrammes di Apollinaire (che non posso riprodurre tutti, ma che si possono trovare qui), la vera fondazione di quella che sarà poi, qualche decennio più tardi, la poesia visiva.
I media utilizzati, in questo caso, sono dunque tre: il segno alfabetico, il segno iconico e il segno fonico. Quest’ultimo viene determinato da entrambi i media precedenti: il tratto più scuro andrà infatti letto a voce più alta; una lettera come la “L” di «calma» dovrà avere un suono lunghissimo e le tre righe rosse sembrano indicare una prevalenza di bassi.
Il poeta-pittore si è dunque attribuito anche il compito di direttore d’orchestra. E proprio questo è uno dei caratteri che più di ogni altro certifica la multimedialità del testo. Paesaggio + temporale è un dipinto fatto di segni alfabetici e, al tempo stesso, è uno spartito: il modo giusto per eseguirlo è prendere lo strumento della propria voce e suonarlo.
Provare per credere.