Una poesia di Giovanni Pascoli
nel centenario della morte

Lettura della poesia Gesù, dalla raccolta Piccolo vangelo

Cento anni e otto mesi fa, il 6 aprile 1912, moriva Giovanni Pascoli. Rispetto a tante celebrazioni in pompa magna che si dedicano a scrittori di tutte le taglie – anche minime – della nostra storia letteraria, mi sembra che quella di questo poeta che ha messo la prima, non piccola, pietra della poesia contemporanea italiana sia avvenuta, nel complesso, sottovoce. Forse pesa il fatto che pochi critici hanno voglia di avventurarsi, oggi, in una lettura non facile: quella di una poesia discontinua, sperimentatrice ma senza clamori, fondante del nuovo ma senza trombe né nastri da far tagliare alle autorità. Una poesia di ricerca solitaria, personale, appartata, rispetto alla quale è inevitabile porsi in una scomoda posizione di ricerca nella ricerca, perdonate il gioco di parole. Una poesia, cioè, nella quale il critico dovrebbe esercitare il suo mestiere in un modo ormai considerato vecchio e superato e che consiste in due semplici azioni. La prima: riconoscere ciò che vi è di ‘bello’ nella produzione di un poeta; nel nostro caso, forse non moltissimi testi – ma neanche pochi – e alcuni tra i più grandi della poesia di tutti i tempi e di tutti i luoghi. La seconda: individuare tutto il lavoro che ha portato a quel ‘bello’; nel nostro caso, un lavoro enorme che forse non è stato bello in sé, ma si è rivelato comunque utile, anzi imprescindibile.

Nelle righe di questo blog, che non è un sito di storia letteraria, ma un luogo, lasciatemi dire, di degustazione della poesia, non posso mettermi certo a fare questa ricerca nella ricerca, questa cernita del ‘bello’ e di ciò che alla creazione del ‘bello’ è stato necessario nella lunga e complessa attività poetica pascoliana. Servirebbe un saggio piuttosto cospicuo.
Tuttavia vorrei celebrare a mio modo il centenario pascoliano con la lettura di una poesia, Gesù, di solito utilizzata per occasioni religiose e lodata come uno dei testi nei quali il Pascoli mostrerebbe «tenerezza e liricità» (cito, appunto, da un sito religioso). Personalmente, ho dubbi molto seri che questi due caratteri, tenerezza e liricità, appartengano in generale alla poesia del Pascoli, nonostante tanti bambineggiamenti di lettori e antologizzatori attraverso i quali essa è stata falsata e, una volta falsata, è stata offerta in pasto in particolare agli alunni dei primi gradi scolastici. Ma credo che, per verificare i miei dubbi in questo caso specifico, sia arrivato il momento di trascrivere il testo di questa poesia bella e profonda e, poi di fare su di esso qualche ragionamento.

Giovanni Pascoli, Gesù


E Gesù rivedeva, oltre il Giordano,
campagne sotto il mietitor rimorte:
il suo giorno non molto era lontano.

E stettero le donne in sulle porte
delle case, dicendo: «Ave, Profeta!»
Egli pensava al giorno di sua morte.

Egli si assise all’ombra d’una meta
di grano, e disse: «Se non è chi celi
sotterra il seme, non sarà chi mieta».

Egli parlava di granai ne’ Cieli:
voi fanciulli, intorno lui correste
con nelle teste brune aridi steli.

Egli stringeva al seno quelle teste
brune; e Cefa parlò: «Se costì siedi,
temo per l’inconsutile tua veste».

>Egli abbracciava i suoi piccoli eredi:
«Il figlio – Giuda bisbigliò veloce –
d’un ladro, o Rabbi, t’è costì tra’ piedi:

Barabba ha nome il padre suo, che in croce
morirà». Ma il Profeta, alzando gli occhi,
«No», mormorò con l’ombra nella voce;

e prese il bimbo sopra i suoi ginocchi.


Il testo, come si vede già a una prima occhiata, è tutt’altro che facile. E non solo per l’uso di un lessico raro (per esempio: “rimorte” = inanimate, brulle; “celi” = nasconda) o specifico (“inconsutile”, cioè non cucita, è la tunica di Gesù della quale parla Giovanni in 19, 23-24 e che, nell’esegesi evangelica, è stata assunta a simbolo della futura unità della chiesa; e anche “Cefa”, ebraico, al posto del nome latinizzato Pietro, non è certo comune), ma perché chi lo legge percepisce subito che, a suo modo, Pascoli scrive qui una parabola: sì una parabola il cui protagonista è Gesù, ma che, proprio per questo, ha bisogno di una spiegazione ancora più accurata di quelle che lo stesso Gesù racconta secondo i vangeli.
È opportuno ricordare, a questo punto, che la poesia della quale stiamo parlando fa parte di una raccolta intitolata appunto Piccolo vangelo. Questa raccolta è stata pubblicata postuma, insieme ad altre poesie di varia origine e di vari periodi nel volume delle Poesie varie (Bologna, Zanichelli, 1912; nell’immagine qui accanto la copertina della seconda edizione, del 1914) a cura di Maria Pascoli, la sorella del poeta. La stessa Maria, nella Prefazione al volume, scritta nel maggio del 1912, precisa:


Seguono poi le cose degli ultimi tempi ch’egli non aveva ancora messe a posto; e la parte che c’è del Piccolo vangelo che voleva compiere tra breve.


La poesia Gesù si colloca quindi all’interno di un progetto più ampio, rimasto incompiuto per la morte del poeta. Un progetto di poesia religiosa? Certamente non nel senso che comunemente si dà a questa espressione. Il Piccolo Vangelo si rivela piuttosto come il tentativo del poeta (del poeta morente, se questa è l’indicazione che vuol darci la sorella Maria) di scrutare a fondo le ragioni della propria religiosità, anch’essa sperimentale, appartata, non riconducibile a una chiesa e invece sempre ricondotta dal poeta stesso al confronto con la morte, anzi identificata con questo confronto, come scrive il poeta nella Prefazione ai Canti di Castelvecchio (1903) –


Troppo? Troppa questa morte? Ma la vita, senza il pensier della morte, senza, cioè, religione, senza quello che ci distingue dalle bestie, è un delirio, o intermittente o continuo, o stolido o tragico.


Ora, questo scrutare conduce Pascoli piuttosto lontano. Il Piccolo vangelo si rivela come un’occasione per ripensare, senza la minima acquiescenza alle verità della Chiesa, il senso storico e quello ultraterreno della figura di Gesù. È davvero strano, da questo punto di vista, che le poesie di questa raccolta, e soprattutto quella di cui stiamo parlando, vengano spesso utilizzate in chiesa o in occasioni religiose. Forse vengono lette senza troppo pensarci su. In un’altra poesia del Piccolo vangelo, Il loglio, Pascoli dà una soluzione del tutto nuova alla parabola del grano e del loglio (o “zizzania”) riportata da Matteo (13,24-42). Ecco la parabola e, subito dopo, la relativa spiegazione come appaiono nel racconto evangelico:


[24] Un’altra parabola espose loro così: «Il regno dei cieli si può paragonare a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo. [25] Ma mentre tutti dormivano venne il suo nemico, seminò zizzania in mezzo al grano e se ne andò. [26] Quando poi la messe fiorì e fece frutto, ecco apparve anche la zizzania. [27] Allora i servi andarono dal padrone di casa e gli dissero: Padrone, non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove viene dunque la zizzania? [28] Ed egli rispose loro: Un nemico ha fatto questo. E i servi gli dissero: Vuoi dunque che andiamo a raccoglierla? [29] No, rispose, perché non succeda che, cogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano. [30] Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura e al momento della mietitura dirò ai mietitori: Cogliete prima la zizzania e legatela in fastelli per bruciarla; il grano invece riponetelo nel mio granaio».
[…]
Colui che semina il buon seme è il Figlio dell’uomo. [38] Il campo è il mondo. Il seme buono sono i figli del regno; la zizzania sono i figli del maligno, [39] e il nemico che l’ha seminata è il diavolo. La mietitura rappresenta la fine del mondo, e i mietitori sono gli angeli. [40] Come dunque si raccoglie la zizzania e si brucia nel fuoco, così avverrà alla fine del mondo. [41] Il Figlio dell’uomo manderà i suoi angeli, i quali raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali e tutti gli operatori di iniquità [42] e li getteranno nella fornace ardente dove sarà pianto e stridore di denti.


Nella poesia Il loglio Pascoli segue passo passo, anche se in estrema sintesi, quanto raccontato da Matteo, ma, dopo la spiegazione della parabola, il Gesù di Pascoli si comporta in modo del tutto inaspettato. A «uno che un fascio avea di loglio» e che dichiara di andare a gettarlo al fuoco, Gesù dice: «Ché nol porti a mia / madre? ché per le sue tortori è buono». Il poeta che aveva pensato il mondo come un «atomo opaco del male» (X agosto), che aveva identificato suo padre con un Cristo crocifisso che perdonava agli autori del male, ora estende questo perdono a ciò che c’è dopo la morte: non c’è l’inferno per Pascoli, questo è sicuro. Coloro che commettono il male vengono considerati parte di un ciclo del divenire nel quale non c’è posto per «il fuoco ove si piange e freme» (Il loglio, v. 18), ma tutti finiscono per essere utili, magari al pasto delle tortore, ma comunque utili.

È a partire da qui che comprendiamo il senso della poesia Gesù. Questo è un Gesù non soltanto senza inferno, ma anche senza chiesa. Gli apostoli, letteralmente dal primo all’ultimo (da Cefa a Giuda), non sono in grado di capire il tormento di chi accetta persino il male, perché accetta l’uomo nella sua contraddittoria interezza. Uno, Cefa/Pietro, si preoccupa – niente meno! – del fatto che la veste inconsutile si possa sporcare con gli steli rinsecchiti del grano mietuto (interesse personale, visto che, simbolicamente, quella veste, cioè la chiesa, sarebbe toccata a lui?); l’altro, Giuda, si prepara al ruolo di spia additando tra i piccoli che si affollano intorno a Gesù il figlio del ladro Barabba. Non una bella figura, potremmo dire, per nessuno dei due. Al contrario, proprio quei bambini – tutti, compreso il figlio di Barabba, anzi lui per primo, tanto che viene preso sulle ginocchia – sono per Gesù «i suoi piccoli eredi», i veri eredi di questa straordinaria accettazione di umanità che non rinnega chi commette il male, ma lo comprende in una visione totale, integralmente e universalmente ecumenica, della vita e della morte, anzi: di chi vive e muore.
Raramente un poeta si è spinto tanto a fondo nell’esprimere una religiosità al tempo stesso così originale e così autentica, così complessa e così semplice, tanto semplice, anzi che solo i piccoli – i puri di cuore e di sguardo, non necessariamente solo i bambini -, senza nessuna mediazione, possono esserne eredi e farsene a loro volta portatori.